Scrivo queste parole in un momento dei tanti in cui penso ai fatti di cronaca che nei giorni scorsi hanno scosso la provincia in cui risiedo.
Fatti che non descriverò qui, in quanto non è il luogo adatto.
Da essi si sono dipanate una serie di riflessioni e si è aperta una voragine di domande.
Mi interrogo anche io davanti a tutto questo. Mi interrogo come madre, come professionista, come cittadina.
Mi interrogo e se, in un primo momento, i dubbi possono condurmi a vertigini nella sintesi esistenziale, da questi non possono che nascere domande nuove nella ricerca di quel senso e di quell’insegnamento che tutti aspettiamo.
Mi rimbomba nella testa la frase “La banalità del male” e senza minimamente voler paragonare i contenuti di quella lettera ai fatti di questi giorni, resta l’amarezza di un evento quotidiano e familiare normale mutatosi in tragedia.
Perché se c’è una cosa che sappiamo è che in modi più o meno volontari, più o meno consapevoli, è da piccole scelte effimere che si generano effetti irrevocabili a volte.
Un dolore può farsi rabbia e la rabbia violenza e la violenza azione e la condanna della azione nuova rabbia e un senso di irrecuperabilità da cui non si esce.
Ecco allora che la parola e il silenzio tornano a rinfrancare e confortare i cuori nostri.
La parola come mezzo al quale educarci per esprimere il complesso e variopinto mondo emotivo che ci abita e che abitiamo.
Le parole e i loro mondi devono diventare sempre di più alleati della nostra convivenza umana.
La parola che libera tutto quello che ci opprime e la parola che aiuta a liberarsi.
E il suo contraltare, il silenzio. Imparare a tacere e a parlare, a custodire e a denunciare, imparare a urlare e a sussurrare. Imparare che le altezze e le profondità umane, ma anche le ombre e i crepacci della nostra natura appartengono a tutti noi.
“Homo sum et nihil humani a me alieno puto.” (Terenzio)
Imparare e tacere. Parlare e commuoversi.
Contatto così il bisogno che qualcuno prenda per mano la comunità che siamo e la accompagni a gradi di accoglienza e consapevolezza nuovi. Una comunità in cui non si celebrano processi domestici nel chiacchiericcio, ma in cui si speri e si faccia esperienza di una giustizia riparativa, quella capace di liberare tutti: chi il torto o il reato lo subisce, chi lo compie, chi vi assiste, chi lo vive.
“Il dono inaspettato del perdono può essere l’esito finale di un percorso nel quale vanno coinvolti non solo le vittime e gli offensori ma anche comunità e istituzioni sociali e politiche.” (Regaglia e Paleari, 2008)
Nel sogno e nella ricerca di una comunità educata ed educante, che possa ispirare nelle giovani generazioni sentimenti di fiducia e solidarietà di cui tutti abbiamo bisogno.
Chiamati come siamo tutti, alla creazione di una rinnovata cultura della vita e una dialettica costruttiva e partecipata in cui forza e fragilità possano essere espresse e integrate.
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