Nei giorni scorsi una frase infelice del premier Draghi sugli psicologi trentacinquenni “saltafila” al vaccino ha destato molta indignazione nel mondo PSI, ma soprattutto ha fatto luce su una serie di stereotipi che riguardano la nostra categoria: che siamo giovani, che siamo sanitari ma di un’altra categoria, anzi di un altro campionato, che la salute psicologica è una cosa che poco ha a che fare con le cose concrete e pratiche e meno ancora con la pandemia.
Sul vaccino e sulla possibilità che chi è iscritto al mio Ordine possa accedere prima mi sono molto interrogata eticamente. Lo psicologo che ha a che fare con le disabilità fisiche o mentali, nelle comunità, con gli anziani, i fragili, gli oncologici, i bambini non ha lo stesso rischio dello psicologo che sta in azienda o dei tanti iscritti al nostro Albo ma che non esercitano. Tuttavia nella loro impreparazione italica il legilsatore o gli Ordini regionali non hanno previsto un modo per discernere la tipologia di psicologo che ha il diritto ma prima ancora il dovere di vaccinarsi, da chi invece può aspettare perchè il suo rischio è basso. Sappiamo infatti che questo diritto-dovere riguarda la tutela del paziente e non quella del professionista, come sancito dalla nuova legge che obbliga tutti i sanitari a vaccinarsi.
Allora ho pensato di raccontare il mio ultimo anno come clinica, perché attraverso questo racconto chi legge possa farsi un’idea di quello che fa uno psicologo.
Lo scorso 8 marzo, prima ancora che fosse proclamato il lockdown, ho scelto di chiudere il mio studio perché avevo compreso che meno persone circolassero e meglio fosse per tutti. Ho chiesto ai miei pazienti di vederci su Skype, strumento che già da anni utilizzavo per i colloqui. Molti hanno accolto questa richiesta e si sono lasciati accompagnare e supportare attraverso lo schermo.
Ho continuato la mia attività di volontariato al centro di ascolto e con le colleghe abbiamo continuato ad offrire sostegno psicologico gratuito da remoto.
Ho approfittato del tempo in più a disposizione per seguire corsi e formarmi, per curare la relazione con i colleghi e ho fatto divulgazione attraverso i social e il blog, offrendo, come potevo e sapevo, strumenti a chi mi leggeva.
Molti pazienti hanno retto il periodo, altre situazioni sono esplose nella loro drammaticità. Ed io ho accompagnato queste persone, prendendomi cura di loro e non dimenticandomi di me. Perché uno psicologo-psicoterpeuta è educato a farlo: ha fatto quasi sempre anni di terapia personale e si confronta con un supervisore.
Ho utilizzato le mie risonanze emotive per stare con l’altro e ho scelto di prendermi il tempo giusto per me prima di tornare in presenza. A Giugno ho riaperto lo studio. Distanziamento, mascherina, igienizzazione, delle mani e delle superfici. Mascherina anche durante i mesi più caldi, perché ad uno psicologo, che è una persona di scienza, era chiaro che la pandemia avesse solo rallentato ma non ancora arrestato la corsa.
Quel mantenere fede alle precauzioni non è stato solo un atto dovuto, ma è stata una scelta etica e politica di educazione civica implicita ed esplicita dei pazienti, per i pazienti e con i pazienti. Ancora oggi quando qualche paziente mostra, ad esempio, remore nei riguardi dei vaccini, come sanitaria mi informo e cerco di offrire informazioni valide, attendibili, scientifiche, insieme con l’accoglienza.
A Luglio ho ricevuto una chiamata di una ragazza: voleva un colloquio per sua madre allettata. Sono andata a casa loro. Ho fatto visita alla signora. Le ho offerto quello che so e insieme quello che sono. L’ho accompagnata per un pezzetto.
Ho deciso di prendere un nuovo studio e di investire sul futuro in questo momento così incerto, perché sento di poter credere in me, nell’importanza crescente di questa professione, nella cultura sempre più radicata dell’importanza di occuparsi della psiche e delle nostre relazioni.
Ho incontrato e incontro un numero sempre crescente di adolescenti presso il mio studio. Ho ripreso da settembre gli incontri in presenza al centro di ascolto.
Incontro qualche bambino con il quale condivido i giochi per entrare in relazione.
Io non so se tutto questo giustifichi la possibilità di poter accedere al vaccino senza sentirmi trattata come una furbetta.
Però so una cosa molto più profonda che mi è mancata e che continuerà a mancarmi ancora per un po’: la possibilità di stringere le mani dei pazienti, di passare un fazzoletto, di accarezzare, di dare un abbraccio, di stare vicini sul divano a parlare quando questo è utile, di leggere un messaggio di un ragazzo dal suo telefono, seduti l’uno accanto all’altro, di fare un lavoro al pc, senza la paura di stare vicina a Marisa, di invitare Luca a due passi lì fuori con me, potendolo tenere per mano, di non vedere la mascherina di Anna bagnata dalle lacrime, di accarezzare Fabiola, di andare al funerale di Antonio.
Di stare in silenzio e guardarsi e lasciare che tutto il volto parli attraverso quel canale speciale che è il nostro corpo.
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