Davanti a queste notizie siamo immensamente piccoli e impotenti. La sensazione è quella di un vuoto che si spalanca, un dolore che attraversa confini e culture, lasciandoci con domande che non hanno risposte definitive.
Dal mio punto di vista diversi sono gli aspetti cruciali:
1. Filosofia e scienza: un dialogo necessario
Abbiamo bisogno di filosofi e pensatori che orientino la scienza, di persone che si interroghino sui processi, sui significati, sulle implicazioni, evitando il pericolo di riduzione al concetto di Bene vs Male, che da Platone a Cartesio ci ha complicato la vita.
Oggi sappiamo, infatti, che la realtà è complessa, che i sistemi sono multipli e talvolta concatenati solo in apparenza. La filosofia non è un lusso intellettuale, ma un’urgenza: serve a non smarrirsi davanti a fenomeni che la tecnica da sola non riesce a decifrare, serve a orientare l’azione tecnica a fare prevenzione, a dare direzione e significato a ciò che altrimenti rischia di restare un insieme di procedure senza anima.
2. I limiti della terapia e la corresponsabilità
Questa ragazza – che la sua anima riposi in pace – aveva anche un terapeuta reale. E questo solleva la questione dei limiti della mia professione.
Esiste una corresponsabilità tra paziente e terapeuta nel processo di terapia. Ed è bene ricordare che il concetto di corresponsabilità è fondante l’Analisi Transazionale. Quando pensiamo ai suoi tre assunti filosofici – ognuno è OK, ognuno ha la capacità di pensare e decidere, e queste scelte possono essere cambiate – comprendiamo che come terapeuti accettiamo che l’altro sia capace di scegliere, di decidere, persino di decidere cosa portare in terapia e cosa no. Questa posizione va profondamente rispettata, perché segna il confine tra il ruolo del terapeuta e la libertà, talvolta dolorosa, del paziente.
Ora possiamo domandarci, ancora per tutte le notti che ci restano, cosa quello psicologo non abbia colto o trascurato nella comunicazione di quella ragazza. Tuttavia sappiamo anche che le persone scelgono cosa raccontare e cosa far trasparire. A volte il professionista non può cogliere quello che non viene portato, proprio perché non viene portato.
Questo fa rabbia e paura e segna un limite: quello che della propria vita ciascuno sceglie, in modo più o meno consapevole.
3. Stati alterati e restrizioni della coscienza
Esistono stati alterati o restrizioni di coscienza, da cui la scelta di togliersi la vita viene presa e mantenuta.
Gli stati alterati di coscienza sono condizioni in cui la percezione di sé e del mondo cambia in modo profondo: la realtà appare sfalsata, estranea, a volte minacciosa. È ciò che avviene, ad esempio, nella derealizzazione, dove tutto sembra irreale, o nella depersonalizzazione, in cui ci si sente distaccati dal proprio corpo o dalle proprie emozioni.
Le restrizioni della coscienza, invece, riducono la capacità di vedere prospettive alternative, restringendo il campo della mente fino a far sembrare l’atto estremo l’unica via possibile. È come se la coscienza si chiudesse in un tunnel, dove la luce delle altre possibilità non riesce più a filtrare.
Si entra così nel paradosso per il quale il soggetto che cura è anche l’oggetto della cura: la mente. Difficile districarsi, difficile stabilire confini netti, difficile non sentirsi fragili a nostra volta di fronte a tale abisso.
4. Il significato che attraversa i confini
Il fatto che dagli USA questa riflessione giunga fino a noi rappresenta non solo un’urgenza di cui occuparci, ma spesso anche il vero significato del gesto estremo: un urlo che rimbalza su tutte le latitudini e che lascia impotenti, sgomenti, vuoti.
Il dolore diventa universale, condiviso, e ci obbliga a non chiudere gli occhi.
A tal proposito mi viene in mente un momento di formazione appena dopo il lockdown, che abbiamo fortemente cercato al C.A.S.A. Centro di Ascolto e Servizi Assistenziali di Chieti, tenuto dal caro prof. Marco Alessandrini. Avevamo sentito l’esigenza di interrogarci su un fenomeno in crescita: quello del suicidio.
Ricordo il senso di smarrimento in quelle riflessioni, ma anche la potenza di un dialogo che diventava azione necessaria, riparatoria, utile, urgente. In quel farlo insieme, in quel farlo con lui, abbiamo intuito che parlare non è mai un gesto banale, ma un atto di responsabilità reciproca.
Penso che la vita sia forte, fortissima, ma in alcuni momenti anche tanto, tanto fragile. E che, dalla caduta dal Paradiso Terrestre in poi, vada considerata come una condizione di ciascuno, un bene fragile da custodire senza mai darlo per scontato.
Penso a Leopardi e alla sua “social catena”, come a un appello urgente a prenderci cura responsabilmente gli uni degli altri. Non solo in teoria, ma nella concretezza delle relazioni, nelle parole che scegliamo, nei silenzi che colmiamo con presenza.
Penso che parlarne sia importante, fondamentale. Non per trovare soluzioni immediate – che spesso non esistono – ma per costruire spazi di ascolto, reti di senso, legami che contrastino la solitudine.
Un ultimo pensiero va a quel collega laggiù negli Stati Uniti, a quella mamma, al papà, a quell’amica di cui parla l’articolo, ai colleghi. A tutti coloro che restano e che dovranno trovare la forza di attraversare il dolore.
Prevenzione e supporto
Parlare e ascoltare sono gesti fondamentali, ma ci sono anche strumenti concreti per chi si trova in difficoltà o teme di poterlo essere:
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In Italia, Telefono Amico (02 2900 3600) e Samaritans Italia (800 069 622) offrono ascolto gratuito e riservato.
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Chi si trova in immediato pericolo può contattare il 112.
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Esistono inoltre centri di ascolto locali e psicologi specializzati in prevenzione del suicidio.
Riconoscere i segnali di dolore, chiedere aiuto e offrire ascolto è un dovere collettivo.
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