C’è qualcosa che accade nello studio di uno psicoterapeuta che possiamo definire in molti modi.
La metafora che oggi mi sento di utilizzare è quella dell’egosintonia ed egodistonia.
Ecco cosa intendo.
Talvolta i pazienti arrivano e ci raccontano un episodio, un comportamento, una dinamica.
Spesso hanno desiderio che qualcosa, di quanto raccontato, cambi: un esito, una persona, un sentimento.
In quel caso il terapeuta cerca nella dinamica di riconsegnare al paziente la responsabilità su un piano concreto delle sue azioni e, a quel punto, il paziente individuerà nuovi atteggiamenti, credenze, comportamenti da assumere che potranno portare ad esiti nuovi.
Ne ho scritto abbastanza nei vari articoli di questo blog.
Altre volte il paziente non ha una richiesta di cambiamento. La situazione che riporta, fosse anche molto routinaria e che investe più aspetti della vita, così come sono, senza chiedere che cambino.
Allora perché ce la racconta? Cosa possiamo farci?
Questa domanda rimbalza dalla pancia al cuore, quando il paziente va via.
La risposta che mi do è che alle volte un paziente è semplicemente alla ricerca di un ascoltatore della sua storia, qualcuno che sia testimone di quell’esistenza con i suoi vissuti, col suo dolore.
Senza richiesta di cambiamento.
Qualcuno su cui impattare, qualcuno da scrutare mentre racconta della sua infanzia, della sua abitudine più intima, del suo vissuto più doloroso.
Qualcuno da leggere tra le pieghe della sua espressività.
Qualcuno che gli dica come gli impatta quel racconto.
Uno sguardo in cui specchiarsi, uno sguardo che dica qualcosa di sè e qualcosa dell’altro.
Qualcuno che ascolti col corpo.
“Perchè Filippo mi racconta del suo matrimonio infelice, di sua figlia alcolizzata?”
– Mi domandai-
La risposta l’avrei trovata qualche seduta più tardi, quando gli chiesi in modo delicato e diretto questa cosa.
Perchè tu mi guardi mentre ti parlo
Ed era così, io lo guardavo e gli raccontavo che si stava commovendo.
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