Quella del “Mutatis mutandis” è una convinzione che ci portiamo filogeneticamente appresso da diversi secoli.
“Bisogna cambiare le cose che devono essere cambiate“, ma che significa? E perchè?
Talvolta nella stanza di terapia mi trovo a non poter accogliere richieste di cambiamento che non siano state adeguatamente digerite.
Talvolta la direzione giusta è proprio quella di non cambiare, ma di sedere e stare.
Talvolta l’obiettivo della terapia è proprio accogliere le cose come sono, accogliere se stessi.
Penso a quando un giovane uomo di successo, dopo un’accurata ricerca di curricula di colleghi, approdò al mio studio, chiedendo: “Io voglio migliorare“, al mio : “Non credo di poter accogliere questo tipo di richiesta, signor Matteo”, lui rimase in silenzio, perplesso, mi guardava.
Credo guardasse la mia espressione serena e sorridente, mentre gli rimandavo questo. Credo guardasse il mio viso nient’affatto corrugato. Credo che la dolce prosodia del mio dire lo sorprese.
Con un po’ di incontri spiegai che a volte chiediamo troppo a noi stessi e che veniamo fino allo studio della psicoterapeuta per chiedere ancora di più.
Spiegai che ci sono copioni per cui le persone inanellano progetti su progetti, uno più grande dell’altro, nella frenetica e stancante rincorsa alla performance più elevata.
E troppo spesso continuiamo a portarci appresso quel “E’ bravo, ma potrebbe fare di più!“, che ha reso percorsi scolastici buoni incomprensibili alle nostre giovani vite.
Al grido di allenatori che volevano “Uno più del massimo“, alle spinte di genitori che chiedevano di darci dentro, di insegnanti di musica che ci educavano ad ambire ad una perfezione che forse non esiste e che, se c’è, è anche molto noiosa.
Quella terapia si concluse con lui che diceva: “Sono felice. Sento di poter fare un altro pezzo di strada da solo. Sento di aver preso molto qui. Non tutto. Ma va bene così!“.
Con quest’espressione egli si riferiva al fatto che nella nostra relazione aveva imparato che le logiche del primo posto, della vittoria, del dare il massimo, potevano essere abbandonate. Che si poteva stare insieme senza dover fare di quello spazio un luogo di performance e mentre imparava questo, coltivava di più la cooperatività in azienda, rendeva stabili le sue relazioni, imparava il confronto senza competizione con i suoi amici.
Ancora oggi Matteo ogni tanto mi scrive e mi ricorda che essere liberi da un perfezionismo scriteriato può essere un modo di essere felici. Il bello è che me lo ricorda senza la necessità di messaggi altisonanti, ma magari con le parole semplici di un saluto.
Ecco, talvolta il paradosso del vero cambiamento, in psicoterapia, è dare un grande permesso: quello di essere semplicemente se stessi.
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