Esiste un tipo di empasse che blocca, ferma e paralizza. In questo senso non ci concediamo un cambiamento, un passaggio, una scelta.
La paura di sbagliare? Di fallire?
Pensiamo che stia lì l’inghippo e a volte lo è. Perché non siamo stati educati a pensare al un fallimento come ad un momento che permette l’acquisizione di consapevolezze e di un rinnovato senso di responsabilità.
Quando in terapia mi capita questo copione, tuttavia, ho imparato ad indagare meglio.
Spesso, molto spesso, questa paura ne nasconde un’altra, il suo opposto.
La paura di riuscire.
Da qualche parte il successo o l’idea di avere successo ci blocca le viscere, attiva sabotaggi, risveglia fantasmi antichissimi.
Nelle primissime fasi di vita, l’acquisizione di autonomia determina, infatti, uno scatto di crescita e di emancipazione circa la relazione con i primi significativi che spesso sono mamma e papà.
Perché può accadere che mamma sappia che non allattare più è il bene per il figlio, tuttavia ne è anche un po’ rattristata, perché finisce un periodo unico.
Può capitare a papà di sapere che è giusto quando il bambino non ha più bisogno di salire in braccio o sulle spalle ma che allo stesso tempo senta un senso di perdita.
Questo sono due esempi semplici, ma sono numerosissimi i messaggi che riceviamo a ogni nostro sforzo, tentativo e riuscita verso le autonomie.
Tutta colpa di mamma e papà?
Svio sempre questo rischio di questa retorica deleteria nelle narrazioni terapeutiche.
Il richiamo alla responsabilità nel qui e ora è un atto doveroso.
Noi viviamo oggi, in questo presente in cui ci è concesso di accedere a consapevolezze nuove. Esse solo non bastano. Ci vogliono scelte nuove e un nuovo modo di pensare la propria storia riconciliato e libero.
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