Negli ultimi tempi mi sono più volte ritrovata a parlare con colleghi in merito alle ragioni di alcuni invii.
“Mi hanno chiesto un terapeuta uomo o donna o cattolico o ateo o con figli o EMDR o psicoanalista ecc. ecc”.
Spesso la ricerca di chi si appresta a entrare in relazione con un terapeuta è costellata di richieste particolari che riguardano le premesse stesse di quella terapia.
Ho spesso riflettuto in supervisione su questo e in questo articolo “Come faccio a capire se il mio psicologo è bravo” avevo anche un po’ condiviso alcuni aspetti salienti della ricerca di uno psicologo.
Io intendo queste richieste come forme di rassicurazione circa la possibilità di avere un linguaggio condiviso, di essere accolti, di sentirsi rassicurati da qualcosa di importante da conoscere.
Quando il mio inviante o il paziente stesso mi rendono ragione della scelta di me per uno di questi motivi, io accolgo questa informazione come un dono prezioso e posso avviare una confrontazione su questo oppure scegliere di tenere per me questo pensiero e valutarlo insieme più in là.
Io oggi, se dovessi scegliere un nuovo terapeuta, mi farei prima qualche chiacchierata con lui o lei e e sulla base delle emozioni e dei pensieri che ne nascono sceglierei se affidarmi a lui oppure no.
Non starei lì a sottilizzare troppo sul tipo di approccio, nè tantomeno se sia un uomo o una donna, se sia credente o ateo.
Lo guarderei e soprattutto mi lascerei guardare per un po’, annotando come mi trovo in quello sguardo.
Nel modulo che faccio firmare dichiaro sempre di prenderci 4 incontri per una valutazione di come stiamo insieme e se io sono il professionista giusto per la persona. A volte capiamo prima se lo sono o no. In quel numero stabiliamo insieme la possibilità di un tentativo che educa a trovare criteri personali o condivisi su cui poggiare una scelta importante.
La mia esperienza mi suggerisce che anche solo questo passaggio è terapeutico in sè.
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