Ci sono volte in cui abbiamo la sensazione di trovarci sempre e inevitabilmente nella stessa situazione.
Cambiano gli attori, ma la drammaturgia è la stessa. Ce ne accorgiamo perché le nostre emozioni finali ci sono molto familiari.
Talvolta dispieghiamo questa dinamica col partner, con il datore di lavoro, con i nostri genitori, con il fruttivendolo e così via.
Come si chiama tutto questo?
Molto probabilmente sei dentro ad una dinamica che Eric Berne chiama Gioco Psicologico.
“Un gioco è una serie progressiva di transazioni ulteriori e complementari rivolte ad un risultato ben definito e prevedibile”
Ovvero accade che facciamo o diciamo delle cose, in risposta a stimoli e con il desiderio più o meno nascosto di comunicare altro rispetto al mero contenuto oggettivo della frase o del gesto che compiamo. Poi veniamo fraintesi e l’altro avrà sempre la stessa tipica reazione con noi.
Nella fattispecie nel gioco che Berne chiama “Tutta colpa tua“, i due giocatori si rimpallano la ricerca di colpe e il modo con cui lo fanno, generalmente, è la lamentela. Nei racconti che custodisco questa dinamica è davvero tanto tanto comune.
Nella mia esperienza clinica un titolo migliore a questo tipo di attività sarebbe quello di “Di chi è la colpa?“. Ci sono persone che davvero trascorrono la vita in modo infelice e ricercano il colpevole del loro stato, imbrigliati in un modo di vedere le cose in cui la felicità o infelicità dipende totalmente da un altro.
A queste persone un percorso di terapia restituisce una splendida responsabilità: quella di essere agenti attivi della realtà, quella di avere come primo compito il pensarsi, sentirsi e comportarsi in modo propositivo e rispondente alla realtà, tutori innanzitutto di se stessi.
Ricordo l’ennesima delusione di amore per Maria, quel giorno insieme leggemmo come tutte quelle relazioni avevano un fil rouge, un copione, sempre uguale, in cui lei si imbrigliava e dimostrava che era tutta colpa dell’altro quanto lei fosse infelice, lamentandosene tanto, finché il partner la lasciava. Quel giorno riuscì a vedere che anche lei muoveva sottilmente le fila di quel gioco. Ne pianse. Le dissi: “Maria, questa è una splendida notizia. Se dipende anche da te la tua tristezza, può dipendere da te la tua soddisfazione e gioia”.
Cambiammo obiettivo di lavoro e lei si avviò verso la parte finale della terapia: c’erano ragioni più profonde per le quali lei non voleva una relazione stabile ed ora era pronta ad affrontarle con me.
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