Accompagnare un manager in un percorso di consulenze psicologiche che hanno come focus il lavoro è un’esperienza che mi appassiona molto.
Perché il lavoro è un microcosmo semplificato, in cui accade la vita nelle sue dinamiche, ma in cui i fattori in gioco sono campionabili e le regole implicite o esplicite quasi sempre chiare o per lo meno deducibili.
Un microcosmo semplificato? Ho scritto proprio così.
Nel senso che le dinamiche relazionali, sociali, emotive della vita al di fuori della professione sono certamente più fitte, arcaiche, complesse. Certamente nel lavoro come nelle relazioni può capitare di imbattersi negli stessi errori, negli stessi esiti, nelle stesse dinamiche, in quello che Berne chiama lo stesso copione. Soltanto che in questo caso la loro esplorazione è semplificata dal fatto che esistono confini e ruoli chiari e, quando questi non siano così, diventa manifesto che il problema sia proprio questa confusione.
Con i manager sono solita esplorare il significato del lavoro, quello di vittoria, quello di sconfitta: la cultura del lavoro nella storia personale e in quella della comunità in cui è cresciuto o appartiene.
Per esempio esploriamo e offriamo senso al concetto di sacrificio legato alla professione, a quello di riscatto, di realizzazione, il valore della transazione economica a fine mese. E poi l’idea di piacere e gioia, godimento e stupore nel lavoro: la cultura degli applausi, del riconoscimento e del riposo.
Il percorso si estrinseca in una meta-riflessione circa i valori aziendali, le relazioni, il significato del tempo.
Ho visto manager costretti in ritmi inumani imparare che quei ritmi erano anzitutto dentro di loro, numerose volte ho visto persone scegliere di cambiare lavoro o di cambiare il proprio modo di intendere il lavoro, offrendo a se stessi quella importante opportunità di essere felici.
Nella racconto biblico quando Dio costringe Eva e Adamo a vivere del proprio lavoro ci sembra quasi che sia una punizione insopportabile, come quella del parto con dolore.
Forse non è così. Anzi, ne sono certa che non lo sia. Quel dolore nel generare la vita e quella fatica nel ricavare frutti dalla terra sono risorsa dura e preziosa allo stesso tempo, che fa di noi persone che possono realizzarsi, costruire e generare mettendoci noi stessi.
Co-creare mondi e abitarli. Non più agenti fortunati e passivi della realtà, ma persone che possono determinarsi, impegnarsi, progettare, percorrere e godere.
La cultura della bellezza si incarna e, a pensarci bene, ogni lavoro degno di esser chiamato tale, aggiunge il bello, il buono e l’utile alla comunità.
I manager che seguo, me lo ricordano e io per questo li ringrazio.
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