Mi trovo spesso ad usare nella stanza di terapia il termine perdono e anche quello di misericordia.
Faccio sempre la premessa di sviare il rischio di fare retorica di stampo cattolico in merito.
Ecco il linguaggio comune, credo, debba riappropriarsi di questi due termini elevandoli a quello stato di umanità che tanto li contraddistinguono.
Perdonare non è solo da Dio.
Perdonare è un’affare da uomini e donne in cammino verso quella pace che non è assenza di conflitto, atarassia, imperturbabilità.
A perdonare ci si sporca le mani di cuore, di sangue, di dolore.
Perchè siamo spesso prigionieri di un rancore che diventa ostacolo alla nostra capacità di crescere ed evolverci.
Ma se i benefici sono questi, perchè è così difficile praticare quest’arte?
Perdonare qualcuno, compresi e soprattutto se stessi, richiede il tempo di sedersi e stare con quella parte di noi che è stata vittima.
Stare lì è tutt’altro che comodo. Perchè comporta contattare angosce e paure, sensi di colpa e di tradimento.Significa piangere e non capire se si è più arrabbiati o tristi.
Significa guardare quella storia, la nostra storia e accogliere che è andata così, che non possiamo cambiarla.
Significa, spesso, elaborare quanto chi doveva proteggerci era assente, lontano o lui stesso carnefice.
Ecco io non parlo di perdono che vuole essere a tutti i costi riconciliazione con una persona, farla tornare nella propria vita.
Anzi spesso un perdono consente proprio di allontanarsi da chi ha procurato a noi o a qualcuno che amiamo dolore.
Perdonare significa, in questo senso, accogliere la storia e allo stesso tempo continuare a credere e sperare di poterci fidare ancora di qualcuno.
Significa rinunciare all’amarezza, che corruga i visi e riduce le possibilità di scegliere cose nuove.
Perdonare è anche comprendere le ragioni profonde di quel dolore, decristallizzare la nostra idea di vittime, rompere lo schema per offrirci la splendida responsabilità di noi stessi e delle scelte nuove.
Spesso l’odio mi appare come l’ultimo atto di una fedeltà al nostro carnefice.
Io non dico che non sia buono o opportuno provarlo, io so che quell’odio e quella carica di rabbia possono diventare altro, sprigionare vitalità, se offriamo a noi stessi -perchè in fondo di questo poi si tratta- l’opportunità di guardarci e accarezzarci con misericordia.
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