Qualche giorno prima che venisse proclamato il lockdown ho deciso di chiudere lo studio.
Mi era chiaro che meno persone circolassero e meglio fosse per tutti.
D’altronde quello strumento chiamato Skype già era da anni nella mia cassetta degli attrezzi: questa volta di nuovo sarebbe tornato utile.
Quasi tutti i pazienti che vedo hanno acconsentito. Loro sapevano già di questo mio modo di lavorare, perché nel plico di fogli che faccio firmare al primo colloquio, la modalità dell’on-line viene citata.
Talvolta diventa occasione di spiegare le ragioni per cui ci si potrebbe spostare sulla piattaforma: un viaggio lungo, il rientro verso la famiglia d’origine che può essere lontana, un’impossibilità a raggiungere lo studio.
Un’evenienza non contemplata da me era la pandemia, ma così è stato.
Alcuni pazienti non hanno accettato di passare in quella modalità, perché non avevano la privacy giusta, perché non avevano il dispositivo adatto, perché volevano sperimentarsi in quella situazione.
“Questo di te dice che non sei un terapeuta che promuove la dipendenza” ha chiosato Massimo, il mio supervisore.
Quelle parole si sono depositate da qualche parte dentro di me. Ho così continuato a lavorare con tutte le fatiche del periodo on-line.
Le fatiche del periodo mi hanno riguardata come professionista, come madre, come moglie, come figlia, come cittadina.
La sensazione di una fragilità fisica e anche psicologica andava accolta e guardata.
Non me la sono goduta la quarantena. No.
La prima volta che sono uscita per fare la spesa ero spaventata.
La prima volta che ho rincontrato i miei genitori da lontano e con le mascherine mi sono domandata quanto fosse grave quello che stava accadendo.
Il giorno di Pasqua ho sentito le campane del paese in cui abito sciogliersi e mi sono sciolta anche io in pianto.
La costrizione dentro ci ha mortificati, è vero. Ha mortificato la nostra socialità. Ha imprigionato la libertà. Ma era l’unica strada possibile. Ed è questo che l’ha resa dovuta e assurda allo stesso tempo.
In quella nuova normalità la disciplina cui sono stata educata dallo sport e dai gruppi e organizzazioni frequentati nell’adolescenza mi è tornata utile.
Ho riflettuto sul valore della parola, il mezzo che uso per lavoro, come farmaco.
E φαρμακός in greco significa sia rimedio e sia veleno.
La parola che dischiude significati e che a volte chiude significati, andava trascesa: io e il paziente stavamo facendo la stessa esperienza di fragilità.
Sulla stessa barca. Io, i pazienti, i miei familiari, il Papa, gli amici, i governanti. Sulla stessa barca.
Non ho cantato fuori dalle finestre e, quando potevo uscire per due passi nelle campagne dietro casa, mi sentivo una privilegiata.
Ho avuto la possibilità di guardare la situazione dalla prospettiva dei miei pazienti e di ascoltare, accogliere, custodire storie di fragilità e storie di resilienza.
Le settimane si facevano mesi e quando gli esercizi commerciali e i servizi riaprivano, io ho aspettato ancora un po’ prima di tornare in presenza.
Il tempo di capire come muovermi, come proteggermi e come proteggere chi sarebbe entrato nella mia stanza.
Quello che importa non sono tanto le nuove regole che ho condiviso con ciascun paziente, quello che importa è che ognuno di loro ha atteso che io comunicassi loro quando riprendere, come riprendere.
Con un rispetto e una pazienza straordinari e questo mi dice del tipo di relazione che instauriamo.
Senza fretta, lontani da quello “Spicciati”, e “Sii perfetto”, che sono le spinte verso le quali spesso il nostro intervento clinico si rivolge.
Ed io per tutto questo sono grata ai miei pazienti, persone che mi onoro di accompagnare e che mi onorano profondamente per la loro fiducia in me.
Grazie.
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