In alcune circostanze psicologia e teologia paiono rispondere agli stessi quesiti che abitano il cuore dell’uomo: il senso dell’esistenza, del dolore, il valore del perdono.
La psicologia indaga con i suoi mezzi e strumenti e la Chiesa anche ed entrambe si mettono al servizio degli uomini di questo tempo.
Lo abbiamo visto col discorso del Papa durante il lockdown con le immagini forti e struggenti evocate.
“La religione fornisce una particolare struttura globale di significato che è centrale per la regolazione delle emozioni e può essere usata per dare senso ad una varietà di eventi e circostanze che normalmente sarebbero destabilizzanti. Ristrutturare eventi dolorosi è un aspetto importante nel coping di emozioni stressanti e la religione può giocare un ruolo centrale a tale scopo.“[1]
Considerarci fratelli, significa davvero poter pensare di essere insieme dentro la stessa barca. L’eco di quella domanda che sempre sconvolge l’uomo di ogni tempo: “Dov’è tuo fratello?” si fa viva, si fa materia.
Tutti insieme. Ognuno a fare la sua parte. Ognuno e ciascuno.
Allora a me vengono in mente tutti quei concetti sulla relazionalità che tanto piace studiare a noi psicologi, sullo stile sicuro di attaccamento [2] e sulla sintonizzazione emotiva [3], per cui riusciamo a guardare negli occhi l’altro, sentirlo, riconoscerlo ed essere certi della sua presenza, una presenza che resta anche quando l’altro si allontana e che si dimostra nel lasciarsi turbare un poco e poi subito consolare.
Penso a ciò che chiamiamo relazione d’oggetto [4] e a come questa relazione, nella analisi della fede, diventa lo spazio in cui sentire una presenza anche quando non c’è, perché è presenza interiorizzata.
Come scienziati della mente, noi psicologi sappiamo che per dare significato al dolore molte persone accedono a contenuti ed elementi propri della religione, che aprono ad una nuova prospettiva e promuovono la fiducia.
La letteratura scientifica attuale annovera la spiritualità tra le risorse interne dell’individuo e, tra le risorse esterne, l’appartenenza ad una comunità con la quale condividere e dalla quale ricevere sostegno al fine di completare il processo di fronteggiamento delle avversità, attraverso un’elaborazione del significato che renda accettabile la perdita [5].
In altre parole, quel dono chiamato fede è una fonte cui attingere per guardare il mondo e cercare, tra le pieghe della nostra storia personale e umana, un senso, un significato che possano consolare l’animo.
Un modo di rispondere ad una domanda sul senso di quello che accade che, sviando il pericolo di cercare colpevoli, rivela significati, apre a opportunità, decristallizza il panico, trova spiragli di luce.
La fede come risorsa nella prova e come consolazione nel lutto diventa uno spunto di riflessione per la psicologia, di analisi e anche di contemplazione del dispiegarsi di quel processo attivo che fa l’uomo bello, ricco, potente nel senso più alto di questi significati.
[1] P. Scilligo, Analisi transazionale socio-cognitiva, LAS, Roma, 2009 p. 391
[2] J. Bowlby, Attaccamento e perdita.
[3] Daniel Stern, Le interazioni madre-bambino.
[4] M. Klein, Il mondo interno del bambino.
[5] Neymer, 2001, in P. Scilligo, 2009.
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