Le dita sono pesanti sulla tastiera e i pensieri in questi giorni faticano a diventare frasi.
Il cuore rotto, quello mio, quello nostro, quello dell’intera Nazione.
Immagini che trapassano l’anima, quelle delle camionette dei militari nella bergamasca. Violenza. Trauma.
Eppure come “teorici del trauma” noi psicologi qualcosa la possiamo dire.
Intanto possiamo dire che il trauma può essere elaborato e che più precoce è l’intervento su di esso, più efficaci sono i risultati e meno pervasive le conseguenze.
Possiamo aggiungere che quando il trauma viene elaborato i due emisferi del cervello, quello sinistro e quello destro, ricominciano a dialogare tra loro e riusciamo a integrare così gli aspetti emotivi con quelli pratico-logici.
Si risistemano i pensieri, si rimodellano le credenze, si dà voce alle emozioni e i comportamenti diventano nuovi.
Negli anni in cui per lavoro mi sono occupata di trauma, ho quasi sempre visto le persone risollevarsi in quel processo che tutti abbiamo imparato a chiamare resilienza.
Se a breve saremo un popolo di post-traumatizzati, un po’ più in là con i mesi saremo un popolo di resilienti.
Io ci credo, per quella pulsione di vita di freudiana memoria che è misura dell’uomo di ieri e di oggi.
Siamo sempre di più un popolo di persone consapevoli, che vede nella fragilità non solo una ferita all’ego, ma la possibilità che ne esca un mondo, il proprio mondo.
Siamo un popolo che può essere solidale, semplicemente perchè questa atroce esperienza ci insegna che siamo connessi in modo fittissimo.
Non più i 7 gradi di separazione teorizzati dai sociologi solo qualche anno fa, ma la certezza che l’altro siamo davvero noi. Che prendersi cura di sè è prendersi cura della società.
E alla fine del virus cosa resterà?
Una società che può rialzarsi proprio come chi subisce un’atroce sconfitta, ma sa che il campionato è ancora aperto.
Se solo lasciamo che la paura resti paura del virus e non dell’altro, per quanto veicolo. Se smettiamo l’abitus di cercare un colpevole e iniziamo a raccontarci una storia nuova, quella di persone responsabili, quella di uomini e donne informati, di una democrazia basata sulla cultura.
E non può esserci cultura senza cultura di Sè e dell’Altro e di Sè con l’Altro.
Ma alla fine del virus cosa resterà?
Un popolo di resilienti, un popolo di persone che, pur sapendo contare i propri morti, scommette ancora sulla vita.
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