La famiglia adottiva, nelle fasi del suo ciclo vitale, presenta momenti critici e peculiarità che la contraddistinguono[1].
Infatti, quando la coppia scopre che non potrà generare naturalmente un figlio, si sente minacciata, compromessa e impossibilitata a realizzare il progetto di diventare una famiglia, così come si era desiderato.
Si può fare riferimento alla scienza per la risoluzione del problema. A volte queste strade sono lunghe, dolorose e costose, potrebbero coltivare false speranze e generare così grande frustrazione, se non si riesce sconfiggere limite biologico.
«A livello personale la sterilità biologica rappresenta una grave ferita dell’identità psicologica, sociale, corporea, che può sfociare nella depressione, nell’impoverimento narcisistico e nell’annientamento»[2].
A livello di coppia la diagnosi di infertilità mette a dura prova gli equilibri costruiti fino a quel momento, modificando i rapporti di forza interni ed esterni a seconda di chi sia il portatore della sterilità e attivando o una serie di risorse presenti nella coppia o antichi conflitti che vi minacceranno la coesione.
Sappiamo infatti che la coppia adottiva non è la somma delle due semplici individualità che la compongono, ma un microcosmo che deve affrontare un compito evolutivo nuovo e complesso per adattarsi al figlio che arriva.
La coppia a questo punto si trova davanti ad un bivio: negare il problema o accoglierlo.
Nel caso in cui lo accolga, la famiglia inizia a trasformarsi e a preparare lo spazio per il futuro figlio, già quando comincia a pensare l’eventuale adozione e, attraverso un lento processo, la riflessione diventa azione.
Si inizia a costruire lo spazio fisico e mentale per un terzo, nel passaggio dalla diade alla triade. Questo passaggio è ricco di molteplici significati, investimenti e aspettative.
«È importante sottolineare che una coppia e sui sistemi familiari di appartenenza riusciranno ad accogliere il figlio che verrà, a patto che questi rimanga il “figlio del desiderio”, con una sua entità autonoma, che non sia “il figlio del bisogno”. Non dovrà cioè servire soddisfare i bisogni degli adulti»[3].
La fase dell’attesa nell’adozione è lunga e dei tempi molto incerti e variabili, richiede pertanto flessibilità e apertura, capacità di dialogo.
Sia la coppia sia il bambino intraprendono un viaggio diverso, altro: il piccolo infatti non è potuto rimanere nella sua famiglia naturale e la coppia ha nutrito il desiderio di genitorialità in modo diverso dalla via naturale.
«La qualità della relazione nell’esperienza adottiva è profondamente legata ai vissuti con i quali si giunge ad essa; la coppia si trova di fronte a un bivio: negare, evitare il problema oppure accoglierlo ed elaborarlo; in questa fase la coppia lavora sui sistemi affettivi di appartenenza che mettono le fondamenta per quella che sarà una relazione accogliente oppure evitante»[4].
Il viaggio adottivo non termina con l’arrivo del bambino, prosegue nella ricerca da parte di tutti membri della famiglia di una dimensione di appartenenza e di tutela dell’identità.
Questo processo riguarda l’intero sistema famiglia che per effetto di un evento para-normativo importante, si modifica e diviene qualcosa di diverso da prima.
Il bambino adottato è portatore di un’esperienza traumatica: questa storia non può essere negata o cancellata. Il compito più delicato, affascinante e impegnativo dei genitori adottivi è quello di gettare un ponte tra la storia precedente l’adozione e l’esperienza adottiva.
Questo processo riguarda tutta la famiglia, compresi zii e nonni, conoscenti e amici, i quali daranno all’evento dell’adozione il significato diverso[5].
Secondo Winnicott se l’adozione va bene, diventa una normale storia umana con tutti gli sconvolgimenti, gli impedimenti delle storie umane nelle loro infinite varianti.
Ciononostante anche per le adozioni che funzionano bene ci sono molte diversità: il bambino ha una storia in cui, fosse anche per nove mesi soltanto, i genitori che lo crescono non c’erano. Proprio per questo per Winnicott è importante capire in anticipo fino a che punto ai genitori adottivi sarà richiesto di curare i loro bambini piuttosto che di accudirli[6].
[1]Cfr A. D’Andrea, I tempi dell’attesa, Franco Angeli, Milano, 2000.
[2] A. D’Andrea, “Le coppie adottanti”, in M. Andolfi, La crisi della coppia, p.470.
[3] Ibidem.
[4] M. Andinolfi, Manuale di psicologia relazionale. p.62.
[5] Ivi p.60.
[6] Cfr D. Winnicott, Il bambino deprivato, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010.
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