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Psicoanalisi e letteratura

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Psicoanalisi e letteratura

I concetti della psicoanalisi nella letteratura del Romanticismo e Decadentismo italiani

Parlare di psicoanalisi significa innanzitutto parlare di Freud. Egli, infatti, nasce nel 1856. Fondamentali nella sua formazione sono due incontri: quello con Charcot e quello con Breuer nello studio e nella teorizzazione dell’uso dell’ipnosi. Ma è lo stesso Breuer che, con la mancata risoluzione dell’ormai celebre caso di Anna O., lascia cadere le chiavi che apriranno, più tardi, la porta della teorizzazione dell’ Inconscio, queste chiavi sono raccolte da Freud.

Egli, infatti, nel 1900 pubblica il suo capolavoro, L’Interpretazione dei Sogni, che rappresenta il geniale compendio di anni di studio, in esso viene esposta la prima topica, in cui l’apparato psichico viene suddiviso in tre istanze: inconscio, preconscio e conscio. A essa seguirà la seconda topica.

L’inconscio si manifesta nei sogni, nei lapsus e nelle associazioni libere, il metodo stesso del padre della psicoanalisi. Un metodo in cui è centrale il ruolo del transfert. Del suo intero corpus, inoltre, va ricordata la suddivisione della sessualità infantile in tre momenti e il complesso di Edipo.

Ma entriamo nel vivo della questione: il Romanticismo. La parola romantic compare per la prima volta in Inghilterra verso la metà del Seicento e, in tutta coerenza con il clima razionalistico, viene usato in senso dispregiativo, perché icona di quanto vi fosse di fantastico e assurdo nei romanzi cavallereschi. La traslazione del significato alla fine del Settecento è tale da rendere il termine espressione anche del sentimento provato da quanti osservano i paesaggi selvaggi malinconici e solitari descritti nei romanzi.

Per meglio inquadrare tale corrente culturale bisogna, inoltre, contestualizzarne il periodo storico. Quest’ultimo, infatti, è caratterizzato da due importanti rivoluzioni: quella politica e quella industriale. Questa nuova realtà non può lasciare indifferente l’uomo dell’epoca, non può che influire su una corale crisi d’identità, caratterizzata da tinte di paura, incertezza, tensione, senso di impotenza.

Interprete di queste contraddizioni portate dalle due rivoluzioni è l’intellettuale, da qui si generano la fascinazione per le immagini truculente, orride, per l’oscuro e per tutto ciò che è metafora dell’irrazionale.

In Italia il discorso è diverso rispetto a quello che si può fare per gli altri stati europei, siamo, infatti, alla vigilia dell’Unità. Qui il Romanticismo è sinonimo di proporzione e di amore neoclassico per il passato. Ma in questa definizione non può entrare certamente Giacomo Leopardi, egli è il più puro poeta romantico italiano.

Tra i numerosi temi toccati dalla poetica leopardiana, ce n’è uno molto caro anche a Freud: L’AMORE E LA MORTE.

A esse Leopardi dedica una lirica riconducibile al Ciclo di Aspasia, ovvero a quei cinque componimenti dedicati a Fanny Targioni Tozzetti, la cui figura è accostata dal poeta a quella della cortigiana amata da Pericle. Così egli scrive: “Quando novellamente nasce in cuor profondo un amoroso affetto/ languido e stanco insiem con esso in petto un desiderio di morir si sente,/ come non so ma tale d’amor vero e possente è il primo effetto”.

L’Amore viene dipinto come quella forza che dà all’uomo il coraggio di innalzarsi e di lottare contro le infauste avversità della vita. Vi è però un profondo iato tra la visione felice dell’amore e il nulla della realtà. Questo genera una tensione quasi tragica, l’amore evoca un “fier disio”, ovvero una forza devastatrice che travolge tutto.

La Morte, quindi, appare come l’unico approdo, il più sicuro, il più risolutivo, il più liberante. Eros e Thanatos rappresentano, infatti, le forze che Freud e la letteratura psicoanalitica accreditano come quelle che regolano la vita dell’uomo. Esse sono anche chiamate “Pulsione di vita” e “Pulsione di morte” e risultano essere in continua posizione dialettica, dato il dualismo che le lega.

Meta dell’Eros è quella di “stabilire unità sempre più vaste e tenerle in vita”. Meta del secondo, invece, è il ricondurre l’uomo a una forma inorganica. Inoltre Freud aggiunge: “Lo stesso amore d’oggetto ci mostra una seconda polarità di questo tipo, quella tra amore (tenerezza) e odio (aggressività)”.

Il Decadentismo nasce dopo il 1880, quando Verlaine pubblica un sonetto dal titolo Languer. Il decadente ritiene che la conoscenza e la padronanza della realtà non siano nella scienza e nella ragione, ma in ciò che è al di là delle cose. In un qualcosa che si rende manifesto solo quando l’uomo, in particolar modo l’artista, decide di svestire l’abito della razionalità e di mettersi in contatto col marasma misterioso ed enigmatico in cui risiede la vera essenza delle cose.

Da qui la preferenza per il linguaggio metaforico, cioè per quelle figure retoriche che, permettendo il salto di passaggi logici, trovano ciò che accomuna due realtà distinte e le chiama allo stesso modo. L’unione tra le cose avviene per mezzo dell’inconscio: in questa zona oscura l’individualità scompare e si fonde con il tutto. Questo inconscio, di cui i romantici avevano appena intravisto i lontani confini, è esplorato con maggiore sistematicità dalla letteratura decadente. Tre i nomi italiani del Decadentismo: Fogazzaro per la prosa e Pascoli e D’Annunzio per la poesia.

Pascoli è oltremodo sensibile alla realtà che lo circonda, ciò è testimoniato anche dalla meticolosità nelle denominazioni botaniche e ornitologiche; una precisione disarmante, che si allontana tuttavia dalla rigidità scientifica del Positivismo e che quasi ricalca i passaggi di una formula magica, grazie ai quali proprio quella parola, e non un’altra, svelando l’essenza reale delle cose, le libera, stimolando così un esorcismo catartico.

Non siamo lontani da quanto avviene con le associazioni libere. Da qui si genera la teorizzazione, da parte del Pascoli, de Il fanciullino. “È il fanciullino che popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei. Egli è quello che piange e ride senza un perché. Egli è quello che nella morte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva. Egli accarezza la bambina che è nella donna. Senza lui, non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l’Adamo che mette nome a tutto ciò che vede e sente.

A lui fa quasi eco Freud quando scrive: “Non dovremmo forse cercare già nell’infanzia le prime tracce della fantasia poetica? Il gioco è l’occupazione più intensa e prediletta del bambino. Sarebbe errato pensare che egli non prenda sul serio quel mondo; al contrario, egli prende molto sul serio il suo gioco e vi prodiga una grande quantità di emozioni. Il poeta si comporta come il bambino che gioca. Egli crea un mondo di fantasia che prende molto sul serio- in cui cioè investe una grande carica emotiva”.

Passiamo ora al poeta vate, D’Annunzio. L’opera di D’Annunzio rivela una eccezionale creatività. Egli è un vero e proprio artefice dell’immagine, la crea, la fa uscire dalla ristrettezza delle righe dei fogli, la rende viva. La sua poesia domina completamente la parola di cui si compone, trova sempre nuove intenzioni sonore, grazie alle quali evocare freschi paesaggi o formicolanti stati d’animo. Egli a proposito delle parole e della poesia si esprime in questo modo: “Il verso è tutto. Un verso perfetto è assoluto, immutabile, immortale; tiene in sé le parole con la coerenza di un diamante; chiude il pensiero in un cerchio preciso che nessuna forza mai potrà rompere”.

Un discorso che non va molto lontano da quanto sostenuto da Freud: “Le parole sono un materiale plastico con cui ci si può fare di tutto. Ci sono parole che, quando sono usate in determinati modi, perdono il loro pieno significato originario, ritrovandolo in un altro contesto. Una qualunque somiglianza delle cose o delle rappresentazioni verbali tra due elementi del materiale inconscio viene presa come pretesto per dar vita ad una terza cosa, a una formazione mista, di compromesso, che fa le veci di entrambe le componenti”.

Un altro modo per indagare i rapporti tra l’arte, la letteratura e la psicoanalisi consiste nel conoscere le influenze di queste su Freud.

Egli è un lettore attento, compie i propri studi universitari nella Vienna della Secessione, animata da pittori del calibro di Klimt e Scheile, di architetti come Olbrich, Hoffmann e Wagner e in musica degni di nota sono Mahler, ma soprattutto Schoenberg che sconvolge tutti i topoi della musica classica in senso stretto.

Freud in Psicoanalisi dell’arte e della letteratura mette sul lettino la stessa arte. Di arte inoltre si parlava molto spesso nelle celebri riunioni del mercoledì; egli stesso dichiarerà, in una lettera a sua moglie, di sentirsi vittima di alcune tentazioni letterarie e una parte della critica, oggi, considera il padre della psicoanalisi uno scrittore.

Freud allora è uno psicoanalista o uno scrittore? A questo quesito noi rispondiamo con un concertato vel vel, proprio perché tra le sue pagine, nei suoi casi, molto spesso il lettore si perde e il paziente si eclissa, sembra quasi di trovarsi in straordinarie vicende di personaggi. Ma Freud resta uno psicoanalista, il fondatore di questa.

Dopo aver visto come in Italia filogeneticamente alcune tematiche squisitamente psicoanalitiche siano state anzitempo toccate, non resta che chiederci come avvenga l’incontro tra la psicoanalisi e la nostra letteratura: Il nodo è Trieste, in cui opera Weiss, triestino è Saba, che è in analisi Weiss, per certi aspetti triestino è anche Joice, di Trieste è soprattutto Svevo che in La coscienza di Zeno ci offre una splendida sintesi di ciò che è il fruttuoso incontro della psicoanalisi e della letteratura.

Ciao, mi chiamo Francesca di Sipio e sono l'ideatrice di questo portale web. Sono una psicologa clinica, psicoterapeuta, analista-transazionale ad approccio integrato, psicologa dello sport. Il mio studio è sul territorio di Chieti-Pescara. Mi trovi sui social, sulla mail ma soprattutto al 3477504713

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