Con questo titolo, certamente provocatorio, intendo soffermarmi con te in una riflessione che dia spazio a un corretto utilizzo del linguaggio, se ti va che io ti accompagni, per qualche minuto, nell’arte di amarti.
Imparare a dare un nome appropriato alle cose, ai sentimenti, alle esperienze amplifica la nostra capacità di sentire e percepirci e ci offre la possibilità di comunicare in modo più preciso, quando ci imbattiamo nel compito di collocarci tra le ascisse e le ordinate dell’esistenza.
La condizione necessaria alla stima è la conoscenza di competenze e capacità.
La condizione necessaria all’amore, invece, è l’accoglienza non solo degli aspetti più armoniosi, utili, potenti, ma anche quella delle parti più fragili e vulnerabili di noi.
Posta questa riflessione, ora capirai qual è la prospettiva dalla quale trovo più utile che ciascuno guardi se stesso.
Non si tratta tanto dello sterile esercizio di accettare o tollerare se stessi e, quindi, gli altri, quanto piuttosto di guardarci con occhi comprensivi, generosi, pazienti, indulgenti, umani.
Gli aspetti del nostro carattere o del nostro aspetto fisico che più fatichiamo ad accogliere, e che talvolta nemmeno riusciamo anche solo a tollerare, raccontano della nostra storia.
Se davanti a un complimento arrossisco o se faccio fatica a fare nuove conoscenze, se sono permaloso o ho i fianchi troppo grandi, se non mi piace espormi o se faccio il pagliaccio per farmi vedere (o per nascondermi), se il mio naso è grosso o la mia pancia è troppo pronunciata… se, se, se… quell’aspetto parla di me, della mia storia, di come ho imparato a stare al mondo. É il risultato di una scelta compiuta forse tanti anni fa, ma che allora mi ha permesso di sopravvivere a vampate emotive o relazioni complicate.
Entrare in questa prospettiva può significare de-cristallizzare modi di essere con me, col mondo e con gli altri e offrire una prospettiva dinamica ad aspetti incalliti di noi.
Una volta compiuto tale passo, posso mettermi in ascolto di me, del mio corpo e delle mie emozioni e porre in una logica di potenza anche gli aspetti più distruttivi di me.
Come può essere possibile tutto questo?
La mia esperienza mi suggerisce che abbiamo bisogno di nuove esperienze dove sperimentare i nostri confini e renderli flessibili e stabili allo stesso tempo: una psicoterapia, un percorso di consulenza psicologica, un gruppo di crescita personale, un gruppo di psicoterapia. Sono tutte strade percorribili e utili.
In tal caso, eviterei la via del coaching, poiché parte da una prospettiva più di performance che di insegnamento dell’arte dell’ascolto profondo di sé.
Il percorso è quello di abbracciare se stessi e accompagnarsi verso prospettive autentiche di luce e armonia.
Allora, BUON CAMMINO!
Photo courtesy of Giorgia Starinieri
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