Si siede, davanti a te, occhi negli occhi lo accompagni per settimane, mesi, talvolta anni, il tuo paziente ti snocciola la sua vita, dipana con te i suoi grovigli, allarga i suoi polmoni e ti porta sulle cime o nelle profondità dei suoi vissuti.
E tu lo accompagni adattando il ritmo del tuo respiro e del tuo cuore al suo.
Non importa se alla prima o all’ultima seduta, talvolta egli tira fuori del cilindro delle sue esperienza un dolore vivo, alla cui fiamma i tuoi occhi iniziano a brillare e, rapide, possono scendere alcune lacrime sul tuo volto di psicoterapeuta-uomo.
Tanto si potrebbe dire in merito all’idea di “psicoterapeuta-uomo“, collocato ormai non più in un aldilà o al di sopra del bene e del male, ma in un aldiquà, in cui egli sa che la comunicazione è circolarità e in cui l’autenticità offre empatia e rifugio.
Quello che so è che io non sono, non sempre, anzi quasi mai, la tela bianca sulla quale il paziente proietta i suoi vissuti.
L’idea del terapeuta inaccessibile e inconoscibile è molto lontana dalle mie basi epistemologiche, ma anche dalle evidenze scientifiche attuali.
L’Io-Tu della terapia che mette al centro la relazione, ci racconta di un terapeuta che sa provare emozione e che quindi… piange.
Sandra arrivò al mio studio con un linguaggio un po’ disorganizzato, facevo domande per aiutarmi a capire, i suoi racconti avevano dei nessi ancora poco accessibili a me.
Veniva e mi dava l’idea che avesse molto bene pensato a cosa raccontarmi in seduta, ne parlammo anche.
Un giorno mentre parlavamo delle relazioni familiari che sembravano dire: “Non fidarti di nessuno“, al mio “Da dove nasce questo messaggio, Sandra?“, lei inizia un fitto racconto dai nessi causali e temporali molto ben organizzati e mi parla di atroci violenze subite da suo padre, percosse e botte, oltraggi e insulti, punizioni e cicatrici ancora presenti sul suo esile corpo.
Rimasi in silenzio, solo qualche frase e lacrime che rotolavano dagli occhi alle mie guance, fino a cadere sulla gonna a fiori che indossavo quel giorno.
Sandra vide che la sua storia aveva un impatto su di me e che il mio piangere non era di disperazione inconsolabile, ma di profonda tristezza e partecipazione al suo dolore.
Ci sono dolori, che noi terapeuti chiamiamo traumi, che possono essere consolati, ferite che possono essere curate, di alcuni di essi il segno resta. Davanti ad esso sono solita restare in silenzio e può capitare che io pianga, che io stia lì composta e pianga, come testimone di un’ingiustizia che riguarda un altro uomo che è mio paziente ma uomo come me.
Ecco dai nostri occhi partono spesso storie nuove, ma trovo importante che dai nostri occhi escano anche delle lacrime, se in sintonia con ciò che si prova in quel momento, come segno di una spontaneità e intimità che sono vere perché reciproche.
Guardare un altro, un terapeuta che si offre il permesso di piangere dona al paziente un’esperienza implicita ed esplicita allo stesso tempo sul fatto che potrà fare altrettanto senza il rischio di frantumarsi.
L’angoscia diventa tristezza, la tristezza rabbia, la rabbia desiderio di giustizia e per avere giustizia c’è bisogno di almeno un testimone che ti sia accanto con tutta l’umanità di cui è capace.
Ripenso alla mia prima volta ad Auschwitz, davanti al muro della fucilazione sostammo per un minuto lunghissimo e piansi, non so raccontare ancora bene quel pianto, ma assomiglia un po’ a quello condiviso con Sandra.
“…ogni morte d’uomo mi diminuisce,
perché io partecipo dell’umanità.”
J. Donne, Per chi suona la campana
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