Le mutue influenze tra due discipline tanto vicine quanto definite nei propri ambiti applicativi, quali sono le scienze psicologiche e quelle sociali, sono testimoniate da numerose ricerche e dallo sforzo sinergico di andare verso la dimensione umana della persona e di indagarne i multiformi aspetti.
Il nostro ambito è quello interessantissimo della riabilitazione psichiatrica, ambito in cui la sinergia tra psicologi e assistenti sociali non solo risulta essere fruttuosa, ma anche necessaria.
La riabilitazione, infatti, è quel processo che prevede il reinserimento del paziente psichiatrico nella vita sociale e lavorativa, ovvero il recupero delle facoltà di interazione costruttiva con gli altri. Essa rivolge i propri sforzi da un lato alle componenti “sane” della persona, perché queste vengano potenziate e, dall’altro, alla costruzione di una rete sociale sufficientemente buona, sensibile e accogliente che favorisca la comprensione della malattia e della persona.
La riabilitazione si affida soprattutto a metodi cognitivo-comportamentali, in quello che viene definito skills training, la nostra attenzione si focalizza, allora, sulle social skills.
Le abilità sociali sono precocissime forme di particolare destrezza nelle relazioni interumane, potenziate attraverso l’esperienza diretta di situazioni sociali complesse. Ne sono tratti caratteristici una buona teoria della mente (ToM), la conseguente capacità di attribuire il corretto significato intenzionale allo sguardo, all’espressione mimico-facciale e a quella posturale e l’adeguatezza delle risposte a tali stimoli.
La letteratura psichiatrica e psicologica, ormai da diversi decenni, attesta quanto questo tipo di competenze siano seriamente compromesse a causa del ritiro sociale nei soggetti affetti da patologia psichiatrica e questo trova un grande riscontro nella clinica. In tal senso sono considerati fattori di protezione, rispetto a recidive psichiatriche, lo sviluppo e il potenziamento di strategie di coping individuali e di competenze esercitate dagli individui, dalle famiglie e dai sistemi sociali di supporto.
Ci si avvale quindi di un’autorevole teoria per orientare gli aspetti pratici del nostro operare, procedendo quindi in maniera nomotetica o, se preferiamo, razionalistica; ma, allo stesso tempo, partiamo dalla pratica clinico-riabilitativa per verificare la validità concettuale dei nostri modelli teorici, lavorando, quindi, dando spazio agli aspetti idiografici o, se preferiamo, empiristici.
Avere bene in mente come certe dinamiche sociali influenzino l’essere umano è fondamentale, ma lo è altrettanto tenere presente la peculiarità dell’individuo. In tal senso sia in ambito psichiatrico, sia in quello psicologico si sta facendo strada il concetto di vulnerabilità stress-coping, ma anche quello di un approccio olistico in cui gli aspetti bio-psico-sociali del singolo vengono debitamente tenuti in considerazione.
A tal proposito lo stesso Manuale diagnostico-statistico dei disturbi mentali, noto come DSM IV-TR e suddiviso in cinque Assi, pone, al quarto di essi, i problemi psicosociali e ambientali. Questi, infatti, sono ritenuti influenzare diagnosi, trattamento e prognosi nelle psicopatologie. “Oltre a giocare un ruolo nello scatenare ed esacerbare un disturbo mentale, problemi psicosociali possono anche svilupparsi come conseguenza della psicopatologia, o possono costituire problemi che meritano di essere considerati nel piano generale del trattamento”
L’empowerment psicologico, così come è definito da Rappaport nel 1981, è il “passaggio da uno stato di impotenza appresa ad uno di speranza appresa”. Tale stato di impotenza, nella patologia psichiatrica, si estrinseca come la perdita di abilità quali la lettura dello sguardo e delle espressioni facciali che sono gli indicatori di una scorretta teoria della mente. La reiterazione di tali comportamenti produce una serie di fallimenti nella comunicazione, che generano il ritiro sociale e, quindi, un profondo senso di sfiducia, con un locus of controll esterno che rende il paziente vittima e non attore partecipativo alla vita sociale. Attività che aumentino le competenze sociali e la self-efficancy (l’auto-efficacia), rappresentano, quindi, passi fondamentali nel nostro progetto.
Dall’altro lato, abbiamo l’empowerment sociale, ovvero ciò che Cornell definisce come “processo intenzionale e continuo per cui le persone di una comunità possono accedere più facilmente alle risorse e accrescere il controllo su queste”. Tale lavoro rappresenta quella necessaria sensibilizzazione degli ambienti naturalmente frequentati dai pazienti, i cui membri, se giustamente formati e informati, acquisiscono quelle competenze di gestione che nascono da una corretta conoscenza circa la realtà del paziente stesso.
La metodologia è quella che negli ultimi anni ha offerto i migliori risultati in tale ambito ed è quella cognitivo-comportamentale. Alla base di tale approccio vi è la convinzione che l’esercizio nel cambiamento di abilità e comportamenti disfunzionali, a favore di azioni funzionali e propositive, rappresenta un fondamentale passo verso un fruttuoso cambiamento. Un mutatis mutandis, che avvia un loop consistente e positivo, un circolo virtuoso di cambiamento e reale, profondo, operativo accomodamento all’ambiente e alle dinamiche sociali.
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