Un argomento social di questi giorni, toccato in modo elegante anche ieri alla prima serata del Festival Premio Rocky Marciano e che mi riguarda come psicologa dello sport, è il tema di chi arriva secondo.
Ho visto campioni fieri della propria medaglia d’argento, ne ho visto altri tormentati.
C’est la vie…
Oppure no, oppure il tutto dipende dalle narrazioni che ci facciamo intorno allo sport e intorno alla vita.
“Il secondo è il primo dei perdenti” è un monito che genera un campione e mille frustrati.
“Val la pena divertirsi, ho già assicurata una medaglia olimpica al collo”.
“Cosa mi manca per arrivare primo?”
“Qual è il merito del mio avversario?”.
Sono tutti modi di pensare e di intendere una finale e il suo esito. Ciascuno diverso.
Uscire dalla retorica che svaluta la vittoria, insinuando il pensiero che non sia tutto è scorretto: per un atleta vincere è importante, in alcuni passaggi fondamentale.
Svincolare il concetto che il valore del Sè sia legato alla vittoria è tuttavia doveroso.
Il rischio sarebbe quello di togliersi l’argento europeo dal collo, legittimandosi quel gesto.
Ecco, educarci al limite, educarci al controllo unico della nostra metà del campo è fondamentale.
Quello che accade nell’altra metà lo studio e la tattica lo possono paventare ma non determinare.
Il limite è una condizione dell’esistenza, pertanto anche dello sport.
Educare i giovani e i campioni a questi concetti, permette il liberarsi di una nuova mentalità in cui le responsabilità siano distribuite in modo aderente alla realtà, in cui si può gioire del proprio bronzo, ma anche dell’altrui oro, quando esso è espressione del bel gesto atletico che eleva la disciplina ad arte.
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