In questa Olimpiade si è finalmente molto parlato del ruolo della preparazione mentale nella pianificazione di una gara, di un campionato, di una olimpiade e di una carriera.
Quello che sono felice di sottolineare è che il coaching, come scritto più volte altrove in questo blog, non è che una delle tecniche nella cassetta di uno psicologo dello sport.
Fare chiarezza su questo mi permette di dire che un bravo mental coach può fare un buon lavoro.
La relazione che intercorre tra un mental coach e uno psicologo dello sport per me è sintetizzabile in questa formula.
mental coach : psicologo = massaggiatore sportivo : fisioterapista
Esistono, si sa, massaggiatori sportivi che sono davvero tanto bravi e che vanno bene perché l’atleta faccia una buona gara, un buon campionato e si senta bene.
Quando tuttavia la situazione è un po’ più seria e clinicamente rilevante è importante che si passi la palla ad un fisioterapista e, talvolta, anche al medico dello sport.
Con questo intendo che un bravo mental coach è importante che conosca i limiti del proprio operato e, quando comprende che la salute mentale dell’atleta che segue è compromessa, è importante che indirizzi verso professionisti come lo psicologo o lo psicoterapeuta.
Nel mio personale modo di lavorare con gli atleti tendo a promuovere in loro consapevolezza e capacità di trovare strategie di fronteggiamento personale e autonomo.
Questo significa che in maniera delicata e presente come psicologa e come psicoterapeuta incoraggio lo sportivo a trovare un nuovo o più efficace modo di relazionarsi con sè, con lo staff, con i compagni di squadra, con l’allenatore, con la società e con la disciplina stessa.
Nel complesso mondo delle relazioni, quelle dipanate da chi in maniera professionistica vive di sport, diventano carburante che permette di co-costruire significati, liberare energie, promuovere concentrazione.
Mi ha molto colpito la storia di Marcel Jacobs che riguarda la relazione ritrovata con suo padre.
Quando usciamo da empasse esistenziali, ferite o traumi come quello dell’abbandono, in un primo momento sentiamo il bisogno di gridare al mondo quanto accaduto e lui ne ha avuto la possibilità, con tutto il mondo che lo guardava e ammirava.
Ciò mi permette oggi di scrivere quanto è vero che le relazioni influenzino la nostra esistenza e con essa la nostra perfomance.
Tuttavia questo alle volte potrebbe non essere protettivo, come clinica mi sarei ben guardata dal commentare queste rivelazioni pubblicamente, anche se ne avessi avuto il permesso da parte del paziente.
Preferisco sempre che i percorsi restino nella riservatezza della relazione che nel mio caso è quesi sempre terapeutica e alla quale sono deontologicamente tenuta e che il riverbero di grandi e piccoli successi sussurri e decanti in modo delicato, convincente, intimo.
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